Se questa è democrazia. Giellismo e anarchismo negli anni Trenta.

Ogni anarchico e socialista libertario dovrebbe leggere e meditare l’agile silloge documentaria curata per i tipi di Nova Delphi da Enzo Di Brango, vicepresidente del Circolo Giustizia e Libertà di Roma.[1] Il volume raccoglie scrupolosamente gli articoli e i contributi che raccontano l’elevato dibattito politico – e anche l’avvicinamento cauto e dubbioso – tra l’anarchico sui generis e geniale Camillo Berneri e il fondatore carismatico del movimento Giustizia e Libertà Carlo Rosselli. Uno scambio di idee e di linee programmatiche di altissimo profilo umano e culturale che, tra il 1935 e il 1936, in un’Europa incupita e ormai risucchiata nella voragine dei totalitarismi, degli imperialismi e del bellicismo cieco, rivelò i reciproci contatti, le reti transnazionali e i pur ostici approcci tra giellismo e anarchismo, due culture senz’altro diverse e tuttavia accomunate dal volontarismo non deterministico, dallo sperimentalismo spiccato, dall’inquietudine mai sazia, dall’afflato libertario ed eterodosso. Non a caso, tanto Berneri quanto Rosselli pagarono con la vita questo loro “socialismo irriverente” e inclassificabile, cadendo vittime il primo dei sicari di Stalin il 5 maggio 1937 a Barcellona; il secondo della Cagoule francese e del fascismo italiano il 9 giugno a Bagnoles-de-l’Orne, Normandia.

Di Brango sintetizza perfettamente il trait d’union politico e filosofico che in qualche modo legò i due libertari, ravvisabile in un’insofferenza genuina verso gli schematismi semplificatori imposti dalle ortodossie di partito o dall’auctoritas di qualche patriarca illuminato o maître à penser. Rosselli, in effetti, aveva denunciato già nel suo Socialisme libéral, pubblicato per la prima volta in francese nel 1930, la profonda “crisi intellettuale” nel campo del marxismo italiano, constatandone la passività ideologica e puntando il dito contro un revisionismo ormai svuotato di sostanza e di spinta propulsiva, perfino nella raffinata e penetrante opera di Rodolfo Mondolfo. Dal canto proprio, Berneri, che aveva frequentato il Circolo di Cultura fiorentino nei primi anni ’20 con Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei, Alessandro Levi, Gaetano Salvemini e aveva partecipato al periodico clandestino antifascista Non mollare nel 1925, incitò sempre i compagni di lotta anarchici a non irrigidirsi nella contemplazione estatica del Verbo di Malatesta o di Kropotkin, ricercando semmai un “anarchismo critico” che “non si accontenta di verità acquisite” e che mira piuttosto alla trasformazione storica del reale attraverso l’azione rivoluzionaria concreta. Un anarchismo insomma operante nella storia, e non fuori di essa; eretico e però anche ortodosso, per riprendere la nota espressione di Eugenio Garin.

Il dialogo tra questi due enfants terribles delle culture anarchiche e socialiste europee – preludio intellettuale della cooperazione anche militare tra giellisti e anarchici nel corso guerra civile spagnola – si aprì a partire da una lettera del 22 novembre 1935 firmata dall’anarchico siciliano Umberto Consiglio, il quale col suo breve testo mise in guardia le formazioni anarchiche dal rischio di un vero e proprio “assorbimento ideologico” da parte di Giustizia e Libertà. Consiglio toccò un tasto delicatissimo. Sin dagli albori del multiforme e polifonico movimento rosselliano, i networks dell’anarchismo in esilio – animati da giornali come i newyorkesi L’Adunata dei Refrattari e Il Martello o il parigino La Lotta Anarchica – avevano discusso calorosamente sull’atteggiamento da tenere nei confronti del giellismo, in cui militavano anche autonomisti libertari e ammiratori di Proudhon e di Herzen come Leone Ginzburg, Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Renzo Giua, Silvio Trentin. A questo proposito, occorre ricordare che nel 1932 perfino un anarchico del calibro di Luigi Fabbri aveva salutato con entusiasmo e con favore l’affermarsi di Giustizia e Libertà nonostante certi pregiudizi “democratico-borghesi” e certe inclinazioni riformiste socialiste qui e là emerse. Né va dimenticato che il Manifesto agli italiani lanciato da Rosselli e da Umberto Calosso in seguito al convegno giellista dell’11-12 settembre 1935 aveva invocato la “liberazione totale dell’uomo” e che, in uno scritto dell’anno precedente, il leader giellista aveva sollecitato una rivoluzione di massa contro lo stato totalitario e dittatoriale, il “mostro” del mondo moderno colpevole di aver divorato la “Società” fabbricando moltitudini senza nome di “impiegati” asserviti al capitale, alla burocrazia, alla guerra imperialistica.

A Consiglio replicò direttamente Rosselli. Certo, ammetteva l’autore di Socialisme libéral, “al pari degli anarchici, noi siamo recisamente opposti ad ogni forma di dittatura e di oppressione, ad ogni ipertrofia statale e, in genere, ad ogni forma di organizzazione sociale in cui non si faccia largo, e sempre più largo posto alle autonomie e iniziative dei singoli gruppi”. Cionondimeno, aggiunse, “molti anarchici si mantengono ancora troppo legati alle vecchie formulazioni tradizionali del pensiero anarchico tradizionale ottocentista”. Urgeva, invece, diventare “libertari del XX secolo”, dando vita ad un “movimento socialista rivoluzionario composto di operai, di artigiani e di intellettuali”, un fluido e trasversale schieramento per rifondare con metodi rivoluzionari l’Italia di domani.

Questo richiamo perentorio e spregiudicato all’azione internazionale e nazionale ed alla lotta senza quartiere ai regimi fascisti suscitò la pronta reazione di Berneri, il quale il 6 e il 27 dicembre 1935, con due interventi apparsi sulle colonne del settimanale Giustizia e Libertà, espose con lucidità le prospettive future e i principali nodi problematici dei rapporti esistenti e potenziali tra giellismo e anarchismo – “avversari un poco cugini” –, avviando così con Rosselli una disputa onesta e franca intorno a modernissimi “problemi” nel senso salveminiano e illuministico del termine: dal ruolo e dalla storia dello stato nella vita politica e civile contemporanea alle ramificazioni della cultura federalista e autonomista; dall’organizzazione programmatica e operativa rivoluzionaria al significato dei concetti di democrazia, autoritarismo, comunismo, socialismo (libertario), classe, partito, umanesimo, giacobinismo, centralismo democratico. Si trattava di questioni a cavallo tra passato e presente che, per via diretta o indiretta, finivano per riportare sempre al centro della discussione il dissidio, l’antitesi già scorta in nuce tra le forze rivoluzionarie portatrici di un “comunismo dispotico centralizzatore” d’ispirazione bolscevica e quelle assertrici invece di un “socialismo federalista liberale” che, nell’interpretazione rosselliana, aveva un precursore di non secondaria importanza nel giovane Marx, in seguito caro a Lukács.

Se tuttavia Rosselli, portando avanti una linea poi ribadita tra il marzo e il maggio 1937 con i cinque articoli racchiusi sotto il titolo Per l’unificazione politica del proletariato italiano, invitò all’azione solidale e congiunta dei gruppi schiettamente antifascisti e alla “pratica collaborazione” anche tra giellisti e libertari d’ogni specie, Berneri, benché non insensibile a simili esortazioni, non mancò di rilevare anche le inaggirabili criticità insite in un avvicinamento forse ancora precoce. L’anarchico lodigiano espresse infatti non poche perplessità riguardo all’atteggiamento dei giellisti nei confronti del Partito Comunista, all’influenza nel movimento delle componenti liberalsocialiste e riformiste bernsteiniane – e dunque contrarie alla linea dell’intransigenza rivoluzionaria – all’irrisolta questione della politica e dell’esercizio del potere, alla vaghezza di alcuni punti programmatici (in particolare, l’articolo 13 dello Schema di programma giellista del 1932 relativo alle “autonomie locali” e alle “istituzioni autonome della classe lavoratrice”). “O Giustizia e Libertà evolve verso il socialismo libertario fino a toccare l’ala socialista libertaria del movimento anarchico”, concluse laconicamente Berneri, “o la collaborazione rimarrà generica”.

Il duplice e brutale assassinio di Berneri e di Rosselli nel 1936 stroncò tragicamente questa feconda diatriba tra intelletti felicemente sovversivi. Per nostra fortuna, le idee resistono alle congiunture storiche avverse e alle repressioni del dispotismo, ricontestualizzandosi e risemantizzadosi in forme imprevedibili e storicamente irripetibili. Da questo punto di vista, Berneri e Rosselli offrono a noi libertari del XXI secolo lezioni preziose anzitutto su quanto siano “inachevées” le nostre osannate democrazie liberali occidentali – per citare un saggio di Pierre Rosanvallon – e, secondariamente, su come l’utopia democratica, orizzonte d’attesa permanente più che realtà storicamente concretizzabile, potrebbe venire in futuro implementata e tradotta in atto più efficacemente.

Davvero viviamo in democrazia? In verità, il solco profondo tra potere e cittadinanza intrinseco alla statualità contemporanea, gli esiti depoliticizzanti della globalizzazione capitalistica, l’egemonia culturale dell’ideologia del profitto e dell’acquisto, l’alienazione del lavoratore-consumatore, la concentrazione di cariche e onori nelle mani di aristocrazie del denaro, la tendenza a soppiantare il momento assembleare e partecipativo a vantaggio di quello esecutivo e deliberativo hanno lentamente sottratto al demos il kratos e condotto all’assopimento, al disciplinamento e alla sterilizzazione del potenziale rivoluzionario e progressivo delle masse subalterne, ormai parcellizzate in troppo sparute istanze e spesso attratte inconsapevolmente dai richiami dell’individualismo e dell’american way of life. L’astensionismo clamoroso registrato negli ultimi appuntamenti elettorali francesi e italiani non è casuale né riconducibile semplicisticamente a una non meglio definita sfiducia generalizzata nei ceti dirigenti: più correttamente, esso scaturisce dal senso di impotenza del citoyen emarginato di queste nostre democrazie liberali, anzi liberiste.

Non votate, comprate! Questo il comando dettato de facto dai fautori dell’accumulazione capitalistica e del governo dei pochi, dei lontani e degli invisibili. Che la sovranità appartenga al popolo è puro involucro giuridico e mistificazione discorsiva, giacché nei fatti al singolo e alle comunità è concesso soltanto di ricevere ordini impartiti dall’alto e di adeguarsi alle decisioni prese in qualche aula sostanzialmente inaccessibile. Tolte le maschere e i sontuosi apparati teorici, il voto si rivela rito sclerotizzato e vuoto, la discussione pubblica sterile esercizio retorico o di intrattenimento televisivo. Il risultato è che politici, tecnocrati, burocrati e finanzieri riescono a sfuggire regolarmente alla sorveglianza popolare e alla censura degli intellettuali, traendo beneficio appunto dall’indifferenza dilagante e dalla carenza di autentici meccanismi partecipativi. Sappiamo poi cosa accade a chiunque provi a rivoltarsi contro la propria condizione di spettatore infantilizzato e passivizzato: le persecuzioni e le trame ai danni di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, hanno dimostrato quanto gelosamente governanti e funzionari (qui statunitensi) custodiscano e difendano una certa lettura formalistica della nozione e della pratica democratiche, ricorrendo abitualmente all’uso della forza intesa come imposizione dell’organizzazione di un certo ordine sociale nel quale governa la minoranza (Georges Sorel). La democrazia dei (consumatori) Moderni non è molto più di questo.

Alla disintegrazione del corpo sociale e politico sotto i colpi della statolatria e dell’imperativo consumistico possiamo e dobbiamo tuttavia contrapporre Rosselli e Berneri, ovvero l’ideale di una società fondata sull’autogestione dei suoi membri. Illustrando l’interpretazione giellista di “autonomia” e di “società socialista federalista liberale”, Rosselli rimarcò che “gli organi vivi dell’autonomia non sono gli organi burocratici, indiretti, in cui l’elemento coattivo prevale, ma gli organi di primo grado, diretti, liberi, o con un alto grado di spontaneità, alla vita dei quali l’individuo partecipa direttamente o che è in grado di controllare”. Ergo, il comune, il consiglio operaio, la fabbrica, l’azienda agricola, la cooperativa, i giornali, le leghe, il sindacato, la scuola, la famiglia. Analogamente, Berneri dichiarò di aderire ai “sistemi libertari nei quali i sindacati, i comuni, i consigli, alla base, e le assemblee (regionali e nazionali) e le direzioni generali al vertice, vengono, almeno in teoria, a sostituire lo Stato, delineando un sistema politico in cui al governo degli uomini subentra l’amministrazione delle cose”.

Ancora oggi, queste accorate esortazioni di due libertari degli anni ’30 colpiscono al cuore l’assetto politico e la cultura ufficiale dell’ordine liberale fondato su Stato, mercato e proprietà privata dei mezzi di produzione, svelandone la segreta inconsistenza. Piuttosto che affidarsi all’incerta strada dell’introduzione di nuovi strumenti partecipativi entro la cornice statale, anticamera di manipolazioni dell’opinione pubblica e di ulteriori populismi, sovranismi e bonapartismi, occorre allora decentrare, autonomizzare, responsabilizzare, democratizzare, anche sul terreno economico. Lo sforzo collettivo dei libertari del presente avrà senso solo se indirizzato a far finalmente coincidere il concetto di democrazia con quello di autogoverno. È questa la rivoluzione ancora da compiere in vista di un rinnovamento integrale degli schemi di pensiero e della società ormai non più procrastinabile. Tenendo a mente, è ovvio, l’ammonimento rosselliano: “la rivoluzione, la sovversione, prima di volerla operare sugli altri e con gli altri, bisogna operarla dentro di sé”.

Giulio Talini

NOTE

[1] Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Contro lo Stato. Articoli (1935-1936), a cura di Enzo di Brango, contributi di Roberto Carocci e Santi Fedele, Nova Deplhi, Roma, 2021, pp. 160.

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